cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

sabato 27 aprile 2013

Chagall - Entre guerre et paix


Dedicare una mostra ad un pittore straordinario dalla vita straordinaria come Marc Chagall è un ennesimo atto dovuto da parte dei Parigini. Il pittore russo passò diversi anni della sua vita nella Ville lumière, da eterno esiliato, e il Musée du Luxembourg é l'ambientazione perfetta per dar luogo a questo tributo (aperto fino al 21 luglio). 
Scomparso quasi centenario nel 1985, Chagall ha attraversato il XX secolo assistendo a una rivoluzione e a due guerre mondiali. Esperienze che hanno contribuito a marcare il suo approccio artistico innestandosi su temi essenziali dai quali non riuscirà a staccarsi mai: la città natale di Vitebsk, la tradizione ebraica, la Bibbia, la guerra, l'amore per la moglie Bella e la famiglia. 

Pittore moderno che rompe le regole e i codici del pensiero modernista, Chagall rimane figurativo mentre attorno impazzano le avanguardie, (cubismo, Suprematismo, Surrealismo) dalle quali di volta in volta prende quel che gli serve(fondamentali a Parigi le amicizie con Apollinaire e Delaunay), ma rimane indipendente, testimone del suo tempo.

Percorrendo l'esposizione si mette in luce l’originalità di Chagall nel rappresentare i suoi tempi. Tempi di guerra e di pace. In un viaggio che comincia con lo scoppio del primo conflitto mondiale fino al definitivo soggiorno nel sud della Francia.

E così vediamo come a Vitebsk, Chagall rifletta una cruda realtà, il movimento delle truppe, i soldati feriti, il popolo ebraico in fuga dai propri villaggi: tematiche pesanti come macigni, che stridono con il un surrealismo dal colori contrastanti e violenti, al limite del naïf, un mondo quasi infantile che annaspa nel timore di scomparire.

Nel 1922, Chagall lascia la Russia definitivamente e si trasferisce a Parigi l’anno successivo. In questo periodo si dedica all’illustrazione di diversi libri: la Bibbia, le Anime Morte di Gogol, le fiabe di La Fontaine. La sua ispirazione vaga verso quelle dimensioni oniriche caratteristiche dell’immaginario chagalliano e inoltre realizza anche molte immagini di coppie, forte riferimento all'amata moglie Bella Rosenfeld. 

Nemmeno il tempo di dimenticare la guerra e la fame che il nazismo già bussa alla porta: mel 1937, i suoi dipinti sono espulsi dai musei tedeschi, e la sua opera appare nella famosa mostra d'arte degenerata a Monaco di Baviera. 
La Francia viene inoltre occupata ma lui riesce a entrare nella zona franca e nel 1941 s’imbarca per New York. 
Ritornerà dall’esilio americano ormai sessantenne forte di una fama immensa. Si stabilisce nel sud della Francia e con la luce abbagliante del Mediterraneo qualcosa cambia anche nella sua arte. Il colore divora i contorni delle figure che annegano nella luce, reinventando una miriade di sfumature dimenticate. 

L'immagine del sogno chagalliano costruisce un mondo che non è una finzione, né un imitazione del mondo reale, ma che costituisce piuttosto l'espressione delle soggettività dell'artista, il prolungamento di quest'ultima sulla tela. Questo lavoro destabilizzante, caratteristiche del sogno, donano alle opere oniriche di Chagall un carattere "surrealista", senza per questo lasciare spazio solo all'immaginazione e l'inconscio. Immagini fluttuanti, senza gravità, con la costante e misteriosa presenza della "capra-demone". Come tutti i surrealisti, Chagall è un sognatore cosciente. 
Negli incroci apparentemente incoerenti che l'artista crea tra le figure, animali o esseri ibridi, un senso di pesantezza gioca sulla misura tra personaggi  e sfondo. I personaggi (spesso messi in coppia- un chiaro riferimento ancora all'infinito amore per Bella) rivestono multipli significati in una continua "polifonia visuale", dove una Madonna potrebbe rappresentare la sposa e l'asino l'artista stesso. 

Chagall sviluppa diversi registri simbolici, e l'identificazione con l'animale sviluppa tutto il il suo significato, sapendo che nella spiritualità giudaica quest'ultimo rappresenta una parte del divino. 



Il sogno di Chagall, non fa dunque differenza tra vita e arte, nel tempo cambia eppure resta immutato. Nella rivoluzione e nella pace, nella gioia e nella tristezza e soprattutto in quella gioia estrema (appunto forse onirica) che non conosce dolore e che nessuno come lui ha saputo evocare in noi. 

M.B.


martedì 26 marzo 2013

Les marchés aux puces


Sono passati più di due mesi dal mio arrivo nella "Ville Lumière", ma nonostante i miei instancabili tour domenicali ho ancora una pulce nell'orecchio, anzi più pulci: quelle del mercato di Saint-Ouen. 
Perché se arrivate a Parigi, che voi siate dei pseudo-hypsters appassionati del vintage o nerd collezionisti, "Brocantes" et "vide-greniers" sono due parole che dovreste subito imparare. Ogni settimana diversi "marchés aux puces" sono sparsi nei quartieri di Parigi, ma fondamentale è il pellegrinaggio a Saint-Ouen. Per i Parigini Les puces non hanno bisogno di presentazioni perché ogni weekend si riuniscono per formare il mercato più grande del mondo, che a quanto pare sembra attirare 150000 ad ogni apertura. Tra questi anche Woody Allen, giunto fin qui per girare alcune scene del suo “Midnight in Paris”.

Desideroso di vedere uno spaccato alternativo della vie parisienne mi faccio coraggio e da Champs-Elysées-Clemenceau salgo sulla linea 13 della métro verso Nord. Molti di solito consigliano di scendere con la linea 4 a Porte de Clignancourt, ma personalmente non sono d'accordo in quanto, oltre ad essere un capolinea molto incasinato, sembra di arrivare in una favela sudamericana, con beurs che organizzano bische sui marciapiedi. Del resto, a parte Montmartre, tutta la zona Nord di Parigi non è esattamente il luogo dove portare la fidanzata per una romantica passeggiata serale.  

Me la prendo più larga e smonto a Garibaldi, per poi farmi due passi in rue des Rosiers e finalmente arrivare al famoso mercato. Un infopoint dall'aspetto moderno e la presenza di qualche americano puzzano un pò da tourist trap, ma, appena entrato, i miei sospetti svaniscono.

Sembra di entrare in un altro mondo: le casette fatiscenti si trasformano in piccole botteghe dove i rispettivi proprietari si appisolano su vecchie poltrone in attesa di acquirenti, il tutto distribuito in viuzze strette e trafficate: Tenere mille occhi aperti è fondamentale. Una forte sensazione di degrado e precarietà si mischia alla vitalità di un posto che non sembra essere mutato dal 1870, quando i robivecchie furono allontanati dal centro città per motivi igienici e s’installarono tra le mura e le prime case del villaggio di Saint-Ouen. Nel 1908 arrivò anche la Métro e la folla cominciò ad esserne attratta. A partire dagli anni Venti del secolo scorso le “pulci” si stabilizzarono definitivamente in questa zona periferica. 
Attualmente sono sedici i mercati che si snodano tra i passaggi trafficati , mescolati con molti stand temporanei, non registrati, che offrono di tutto, da utensili da cucina obsoleti a vecchi jukebox e cianfrusaglie di ogni tipo.


Il primo mercato che si incontra è Le Plateau, più raffinato e dedicato ai mobili d'antiquariato, seguito, a seconda della direzione che si sceglie di prendere, dal marché Michelet e dal mercato della rue Jean Henri Fabre. Le botteghe ospitano testimonianze dell’arte e della vita quotidiana praticamente di ogni tempo: si va dal bugigattolo con riproduzioni anatomiche dell’Ottocento a quello che espone mobili dalle tinte forti degli anni Settanta. E' un atmosfera labirintica e dare un'occhiata a tutto è impossibile. 


Spesso spesso i proprietari sono francesi particolarmente desiderosi di condividere la storia degli oggetti accumulati, o almeno quanto sono riusciti a ricostruire, quale presupposto di una sottile negoziazione. Passano il pomeriggio su piccoli tavoli a mangiare formaggio con del vino in attesa di clienti. 

Alcune opere in vendita fanno di Saint-Ouen un museo a cielo aperto: tra sculture di leoni in marmo bianco e busti di Napoleone III si ammassano alla rinfusa manichini vintage con quadri naif di Capri e del Vesuvio in eruzione di notte.
E se i soldi mancano, si possono sempre acquistare alcune cartoline usate, che ancora contengono l'odore e la storia di chi le ha scritte: fotografie di altri tempi, cariche di storie personali. 
Procedendo verso le vie vicine alla Peripherique, il mercato perde in parte il suo fascino per lasciare posto a bancarelle più temporanee con vestiti e scarpe, uguali in tutto e per tutto ai mercati rionali italiani, mischiati a creperies ambulanti e miserabili rigattieri improvvisati, che han cercato nella notte qualche cosa da rivendere. Nonostante questo, rimedio per una decina di Euro due vinili in una bancarella gestita da due Rasta che sembrano aver sbagliato Camden Town di qualche chilometro. 

Impossibile non tirare fuori la fotocamera, ma devo fare molta attenzione, perché a quanto pare i negozianti non sembrano provare molto piacere nell'essere fotografati, e appena gli dedichi un minimo di attenzione, ti si attaccano come zecche. 
E poi una regola fondamentale: mai (e ripeto MAI) accettare la prima offerta se si vuole acquistare qualcosa, perché oltre ad essere preso per un idiota, per les puces è un segno di maleducazione. Il divertimento risiede soprattutto nelle trattative, gestite nello stile scherzoso ed irruento dei faubourg.


Mi chiedo alla fine di tutto ciò chi possa essere interessato a questa merce esposta su strada: vecchie pentole rigate, ferri da stiro che se funzionano è un vero miracolo, libri vecchi senza copertina e vecchie scatole di fiammiferi.
Credo ci sia qualcosa di profondamente vitale nell’osservare gli oggetti appartenuti ad altri e magari ora orfani, liberi di continuare la loro esistenza nelle mani di altri. Le esposizioni dei vari bugigattoli offrono l’opportunità la ricerca per le belle cose. La curiosità, il dialogo con il commerciante, la soddisfazione dell’acquisto rendono la visita al mercato delle pulci un’esperienza da voler ripetere. 


Tra chi raccoglie gli oggetti e chi li compra si crea un legame che non avviene certamente in un negozio qualsiasi, dove ogni cosa è nuova e senza storia. Lascio Saint-Ouen con la consapevolezza che forse ogni oggetto ritornerà prima o poi nel ciclo vitale di un altro mercato altrove. 

M.B.


martedì 12 marzo 2013

Marjane Satrapi - Peintures


In un sabato pomeriggio troppo caldo per il marzo Parigino, mi dirigo verso Miromesnil, nell'ottavo arrondissement, a due passi dagli Champs-Elysées. 
Uscendo dall'omonima fermata lungo la linea 9 della Métro mi ritrovo subito davanti alla galleria "Jérôme de Noirmont", circondata da tante altre esposizioni d'arte private, sparse come il prezzemolo fino a Marais.


La De Noirmont in questi giorni ha l'onore di ospitare la prima personale di un'artista unica nel suo genere come Marjane Satrapi, e la curiosità è troppo forte per poter perdere una simile occasione. 

Probabilmente, citando il film d'animazione "Persepolis", il nome di Marjane Satrapi potrebbe dirvi qualcosa di più. Non senza vergogna, ammetto che la mia conoscenza di tale disegnatrice (o pittrice?) è limitata a questo lungometraggio: un piccolo capolavoro, che con la delicatezza del cartone animato ha avvicinato il mondo europeo all'enorme questione della vita femminile nei paesi arabi. 

Nata a Teheran nel 1969, la Satrapi ha vissuto gli anni della rivoluzione islamica e della guerra all'Iraq, prima di abbandonare il paese a soli quattordici anni senza famiglia, soggiornando Vienna, poi Strasburgo e stabilendosi poi a Parigi. 
La pittrice deve molto della sua formazione artistica ad una lontana zia, che fuggendo da un matrimonio combinato, andò ad abitare in Svizzera per studiare pittura. L'allora giovane Marjane passò buona parte della sua infanzia con l'"Ammeh Suisse", disegnando su ogni supporto possibile e sulle mura della sua casa, fino a quando un cancro non decise di portarsi via l'amata zia. 

Satrapi la ricorda così in un'intervista:

"...poco prima di morire mi domandò di vedermi, avevo solo sei anni e la incontrai nella sua camera d'ospedale(...). Ero spaventata dal suo aspetto pallido e malato, ma mi feci coraggio. Al suo fianco aveva un piatto di pollo e carote al vapore, ne aveva mangiato la metà, mi ordinò di mangiarne il resto, non potevo rifiutare(...). Poi mi guardò e disse: "Tra poco morirò e il mio spirito entrerà nel tuo corpo". Attese qualche secondo per poi confessarmi: "Vista la forma della tua fronte, forse sarai una pittrice, forse una scrittrice, forse tutte e due."
Avevamo la fronte uguale e qualche giorno più tardi morì.
Da allora ho vissuto con il suo spirito in me e come una tragedia greca ho avuto il destino segnato: ero condannata a fare la scrittrice o la pittrice, ed è quello che ho fatto per il resto della mia vita." 

In effetti Marjane Satrapi nella sua vita ha scritto molto, se pensiamo che anche il fumetto è in sé una scrittura: il disegno del fumetto non descrive il proposito ma ne è complementare. Con questo linguaggio è arrivato poi il già citato "Persepolis", che da semplice vignetta è diventato pellicola, raccontando storie oltre gli immaginari attori.


Pochi(me compreso) lo sanno, ma l'artista iraniana ha anche dipinto, e non poco. Quella di Parigi è la prima mostra in assoluto dedicata ai suoi quadri: prima di essa, la Satrapi non si è mai sentita abbastanza pronta per esporli ed il contatto con la De Noirmont è arrivato grazie all’amica video-artista Shirin Neshat.

"Ero nata in un periodo che la pittura era già defunta, non volevo fare dell'arte morta! E poi ho scoperto che tutte le forme d'espressione artistica, dalla scultura alla musica, erano già morte, persino il cinema. Si può per esempio, tentare di fare del cinema, dopo Orson Welles?"



La galleria ospita 21 tele inedite, realizzate tra il 2009 e il 2012, divise in dodici ritratti, sei in coppia e tre ritratti di famiglia: tutti volti di donne nei quali ritroviamo i “profili autobiografici” delle strisce di Persepolis.
Una pittura minimale, basata su una tavolozza di colori primari e forme talmente basilari da evocare Mondrian. Un mondo drammatico e fantasioso quello di Marjane Satrapi, dove però le sue donne ritrovano la femminilità perduta di una Teheran che non c'è più. Spesso sono i capelli neri o il colore dei vestiti a costruirne la figura, ornata di pochissimi dettagli: una tazza fumante, oppure una sigaretta con un libro. 


Un tempo silenzioso e sospeso avvolge queste donne, che ad eccezione dei ritratti di famiglia, mai guardano lo spettatore, ma i loro occhi vanno oltre: cosa mai staranno osservando?
Ma come disse Diderot: "Quando si scrive, serve scrivere tutto? E quando si dipinge serve dipingere tutto? Suvvia! Lasciate qualche cosa in sospeso per la mia immaginazione!"

Queste poche righe della Satrapi riassumono al meglio l'essenza delle sue opere: 

"Morta o viva, amo la pittura e provo sempre piacere nell'esplorarla. Si tenta spesso di spiegare che un poeta ha detto una tal cosa in mille parole, dimenticando forse che il poeta era semplicemente ubriaco. 
Le mie ragioni per dipingere sono le stesse del pittore ubriaco. 

Dipingo donne, ma non per una lotta femminista, non sia mai! 
Dipingo per gli stessi motivi di Modigliani o Gauguin.

Ho ritratto spesso mia madre, la mia zia, ed altre cugine delle quali non ho che vaghi ricordi. Quelli che mi hanno aiutato a crescere. E' la mia ricerca del tempo perduto."


Un breve ma intensissimo percorso artistico quello alla galleria "Jérôme de Noirmont", che da questa insolita Parigi mi ha permesso di vedere oltre il velo nero dell'Iran contemporaneo.


M.B.

giovedì 28 febbraio 2013

Granville: la "Belle Époque" dell' Indie rock francese

Ma in fondo, quanto ne sappiamo della musica Indie francese? Che rapporto hanno i nostri compari transalpini con la chitarra elettrica? 

Se la vostra conoscenza di band francofone si limita ai Noir Désir - per i quali dovete ringraziare MTV, che in un momento di lucidità decise di trasmettere il video di "Le vent nous portera", se no per voi Bertand Cantat sarebbe rimasto soltanto un cruento assassino - lasciate perdere la Tour Eiffel, l'Olympia, le Chat Noir e prendete un biglietto sola andata per Caen. 

Si proprio Caen, perché da qualche anno a questa parte la fredda Normandia sta partorendo una serie di gruppi che nulla hanno da invidiare alla vicina Inghilterra: tra queste spuntano i Granville, giovanissima band formatasi solamente due anni fa. 
Superato il battesimo a Le Cargö, locale di Caen che rappresenta la rampa di lancio per tutte le band locali, i Granville quest'anno faranno parlare molto di sé con il loro album d'esordio "Les Voiles". 

Come tutte le formazioni provenienti dalla loro terra, questi quattro ragazzi strizzano l'occhio verso Ovest, portando nei loro brani sonorità più vicine a Fleet Foxes e B-52, piuttosto che ai sopracitati (ma rispettabilissimi) Noir Désir. 

Un bel ritratto di famiglia, quello dei Granville, i quali prendono il loro nome da un piccolo borgo vicino alla loro hometown, mentre il loro singolo di lancio "Jersey" (una rivelazione per la rivista "Les Inrockuptibles") riempie le nostre orecchie di un' atmosfera solare e naïve che sembra più appartenere alle spiagge hawaiane degli anni 50 piuttosto che alle rive atlantiche. 

La band si è formata attorno alla figura carismatica di Melissa, cantante dal peso piuma. "E' accaduto tutto così velocemente! All'inizio la nostra sola ambizione era suonare qualche brano nella nostra sala prove scalzi, bevendo qualche bicchiere. Solamente dopo aver terminato le registrazioni del primo disco ci siamo resi contro che non erano passati nemmeno due anni dalle prime telefonate." 
Oltre all'influenza culturale de Le Cargö, la scena musicale di Caen deve molto della sua vitalità al bar "L'Écume des Nuits", che con le sue serate "open-mic diede la possibilità a Sofian e Arthur di incontrare Melissa(oggi appena maggiorenne), la quale allora lasciò il liceo per formare il primo gruppo folk "Raspberry Curls". 


Parlare d'influenze inglesi sembra essere un passaggio abbastanza logico, vista la vicinanza geografica ed il fatto che "Jersey" è anche il nome di un'isola a cavallo tra Francia ed Inghilterra, ma in questo caso i Granville sembrano non darci molta importanza: "Questo avrebbe potuto valere quindici anni fa, quando si formò una scena brit-pop, ma noi siamo più giovani e abbiamo conosciuto la musica attraverso internet. Avremmo ascoltato musica anglofona anche se fossimo nati nell'Est." 

Le sonorità della band si fondano su basi ben solide, che partono dai conterranei come Gainsbourg ed Oliver Hardy, per mescolarsi poi con formazioni oltremanica e transcontinentali della portata di Best Coast e Blood Orange. Il tutto poi va condito con il cinema di Sofia Coppola e Michel Gondry. "Ci piacciono le immagini contemplative, la musica va ascoltata per evadere. Con i Granville non si parla dei problemi quotidiani o per impegnarsi in cause sociali, anche se è fondamentale avere delle opinioni da sostenere. La nostra ambizione è suonare un pop naïf e poetico, semplice, vivace e toccante allo stesso tempo." Il loro disco, dal suono molto "live" e americano (con tutte le dovute sbavature) sostiene perfettamente questa tesi. 

L'ascolto di questo quartetto ci fa respirare un vento che sembra arrivare direttamente dalla West Coast (o la Best Coast?) su una dozzina di romantiche ballate. Un album che sogna le Hawaii (Jersey), le vacanze al mare con una "deux chevals" (Le rohmerien Adolescent), e il sole in faccia tutto l'anno (La Robe rouge). Ma guai a parlare di clichés! I Granville descrivono un mondo teenager, fragile e colorato, come un film di Wes Anderson, altro idolo fieramente rivendicato dalla band. 
M.B.


L'ascolto: "LES VOILES" (East West-Warner) - uscito il 4 Febbraio 2013

La formazione:
- Mélissa Dubourg - Voce
- Sofian El Gharrafi (songwriter, chitarre, tastiere)
- Nathan Bellanger (basso)
- Arthur Allizard (batteria)

Sito web: http://granvillegranville.com/




lunedì 11 febbraio 2013

Tutti i colori di Joel Meyerowitz


Ci sono degli incontri che cambiano il tuo punto di vista, e l'artista che ho conosciuto alla Maison Européenne de la Photographie non potrà negarlo. 
Prendete Edward Hopper, regalategli una macchina fotografica, fategli conoscere Elliott Erwitt ed otterrete Joel Meyerowitz.


Nato nel Bronx alla fine degli anni 30, Meyerowitz cominciò a condurre una vita da pubblicitario nella NY degli anni 60 quando gli capitò tra le mani un servizio fotografico ritraente due studentesse: si trattava del grande Robert Frank.
"Allora non sapevo assolutamente chi fosse, ma in un attimo mi resi conto di non ave mai visto nessuno muoversi e utilizzare una fotocamera in quel modo!" ricorda ancora adesso.

Dopo aver mollato il lavoro, a 26 anni Meyerowitz si butta nel campo della fotografia, senza mai essersene interessato prima. 
"Tutto ciò che volevo era trovarmi nelle strade di new York(...)caricai una pellicola a colori senza chiedermi se ci fosse qualche altra alternativa e uscii..." 
Questa spontaneità e innocenza gli permettono di sperimentare il colore in un' epoca dove esso non era ancora un fatto scontato. 


"Si pensava che il colore fosse troppo commerciale, o che fosse un fatto riguardante solo i dilettanti, oppure che fosse anche quasi impossibile sviluppare foto a colori da soli nella propria camera oscura."
Per le strade, davanti ai suoi occhi, il gesto o la scena di vita più banale diventano dei potenziali istanti da fissare con poesia ed ironia. 

A metà anni 60, un lungo viaggio in Europa (Parigi compresa) segnano una svolta importante nella sua carriera. Meyerowitz comincia a sperimentare portando con sé due macchine fotografiche: una a colori ed una in bianco e nero, riprendendo la stessa scena due volte, con due "occhi" diversi.  




Da allora in poi, sposerà definitivamente il colore per catturare "l'istante decisivo" con una 35 mm, che gli rivelerà tutta la bellezza del reale.
Con il passare del tempo poi lo street photographer Newyorkese estenderà il suo campo di azione ai paesaggi e alle architetture locali, come ai perfetti sconosciuti che si offrono per esser catturati dalle sue fotocamere. 


La retrospettiva della MEP presenta un intero excursus della sua carriera artistica, dal bianco e nero, alla toccante campagna fotografica sulle rovine del World Trade Center. 


"Manteniamo ricordi a colori, tanto quanto delle percezioni olfattive. Essi evocano sensazioni, e a partire dal loro riconoscimento ne elaboriamo un personale vocabolario di risposte ai colori. Chi sa veramente perché scegliamo i colori nei quali viviamo, o perché un colore ci rilassa, mentre altri ci irritano?" 

Solo una cosa è certa, con Joel Meyerowitz la "Vie en rose" ha molte più tonalità.

M.B.

sabato 2 febbraio 2013

Edward Hopper: un americano a Parigi

"Great art is the outward expression of an inner life in the artist, and this inner life will result in his personal vision of the world. No amount of skillful invention can replace the essential element of imagination. One of the weaknesses of much abstract painting is the attempt to substitute the inventions of the human intellect for a private imaginative conception."


Ad appena una settimana dal mio arrivo in terra transalpina, Parigi mi accoglie con una nevicata non indifferente, tanto da dover ricorrere all'autostop per raggiungere la metro, causa bus bloccati.
Quando a Parigi arriva la neve, i suoi cittadini si dividono in due categorie: quelli che si buttano con gli sci giù per le strade di Montmartre – ho le prove!- e quelli che passano la domenica a musei.
Dopo essermi bagnato con cura le scarpe nella Butte, decido di passare all'altro fronte.
Ritornando ai Champs-Élysées , per istinto (o per pigrizia?) mi dirigo verso il Grand Palais, attratto da una mostra dedicata ad Edward Hopper. Cosa ci fa un americano a Parigi? Decido di colmare la mia ignoranza: con un ridicolo francese chiedo un biglietto ed entro.

Nato esattamente 131 anni fa a Nyack, piccola cittadina nel sud-est dello stato di New York, da genitori borghesi, Hopper sviluppa già dall'età di 5 anni notevoli capacità artistiche.

Nel 1895 arriva il primo quadro: Rowboat in Rocky Cove, mentre Quattro anni dopo viene spinto dal padre a frequentare un corso per corrispondenza presso la New York School of Illustrating, nella speranza di tradurre le sue capacità artistiche in lavoro.

L' anno dopo Hopper s'iscrive alla NY School of Arts e ci studia sei anni sotto la fondamentale supervisione di maestri come William Merritt Chase e Robert Henry.

A parte il clima stimolante che l'artista ha occasione d'incontrare, la vera influenza sulla sua personalità artistica viene esercitata dagli insegnanti, che lo spingono a copiare le opere esposte nei musei e ad approfondirne gli autori.

In Hopper si svilupperà il gusto per una pittura ordinata, dal tratto nitido e lineare. Questa impostazione, che ad un primo esame potrebbe apparire accademica, in realtà è coniugata (nell'intento degli insegnanti e poi fatta propria da Hopper), da un rapporto critico con le regole, che spinge e invoglia il giovane artista a trovare una propria strada personale in base alla propria sensibilità.
E qui arriva Parigi: dopo il conseguimento del diploma e il primo impiego da illustratore pubblicitario alla C. Phillips & Company, Hopper nel 1906 intraprende il suo primo viaggio nella capitale Francese dove rimane fortemente colpito dalle opere di Rembrandt, quasi ignorando il fermento cubista di quegli anni. Ci ritornerà nel 1909, dipingendo a Saint-Gemain e a Fontainebleau e sarà amore per sempre con l'impressionismo: oltre a questo c'é l'influenza del Courbet paesaggista, la modernità di Degas, le coreografie galanti e l’uso del colore di Watteau, e ancora Goya e Cézanne. Gettate queste basi per un'arte realista, arrivano i primi capolavori come Summer interior (1909) e Soir Bleu (1914), tutte opere che mettono in evidenza la sua tecnica elegante e quel “senso di incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana” che riscuote grande successo e che segna l’inizio di una felice carriera. 





Fin dagli esordi della sua carriera artistica, Hopper è interessato alla composizione figurativa urbana e architettonica in cui inserire un unico personaggio, solo e distaccato psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. Inoltre il suo genio artistico gli ha permesso di costruire una tavolozza coloristica del tutto originale e riconoscibile. Lo studio degli impressionisti poi, e in particolare di Degas, gli infonde il gusto per la descrizione degli interni ed un uso dell'inquadratura di tipo fotografico.
L'estrema originalità di Hopper è facilmente verificabile se si pensa che il clima culturale europeo dell'epoca vedeva agitarsi sulla scena diverse tendenze certamente avanzate e rivoluzionare ma anche, talvolta, forzate da avanguardismo. ll ventaglio delle opzioni che un artista poteva abbracciare ai primi del novecento andavano dal cubismo all'astrattismo. Hopper invece, predilige rivolgere il proprio sguardo al passato appena trascorso, recuperando la lezione di importanti maestri quali Manet o Pissarro, Sisley o Courbet, riletti però in chiave metropolitana e facendo emergere, nelle sue tematiche, le contraddizioni della vita urbana.


ll ritorno in America sarà seguito da una numerosa serie di acquerelli dipinti tra il New England e il Massachussets , tra i quali spiccano House Fort Gloucester (1925) e House by the Railroad (1926),chiari esempi di un meticoloso studio dell'architettura locale. Una mostra nel 1923 lo consacrerà caposcuola dei realisti della "scena americana".


Tempo, luogo e memoria illustrano al meglio la maturità dell’artista, il suo discreto osservare e soprattutto l’abilità nel rivelare la bellezza nei soggetti più comuni, usando spesso un taglio cinematografico, molto apprezzato dalla critica.

Una luce notturna e violenta, come quella elettrica dei drugstore, dei diner, degli appartamenti semivuoti di un mondo un po’ noir, immobile e malinconica (Nighthawks-1942) ; ma anche zenitale e abbagliante, quella che scalda le facciate in legno delle case e addolcisce i volti appena abbozzati di personaggi solitari, affacciati alle finestre (Cape Cod Morning-1950). Per Hopper è sempre consistente, netta, materica; asservita alle regole della logica compositiva, diventa un potente strumento drammatico del paesaggio americano rappresentato, evocazione di una struggente solitudine, spaziale e umana. Una sensibilità che solo l'Europa poteva donargli.


Hopper è stato per lungo tempo associato a suggestive immagini di edifici urbani e alle persone che vi abitavano, ma più che i grattacieli egli preferiva le fatiscenti facciate di negozi anonimi e i ponti meno conosciuti (From Williamsburg Bridge - 1928).



Tra i suoi soggetti favoriti vi sono scorci di vita nei tranquilli appartamenti, spesso intravisti dietro le finestre, come testimoniano alcuni celebri capolavori esposti: Cape Cod Sunset (1934), Second Story Sunlight (1960) e A Woman in the Sun (1961).



E tutto questo estremo realismo conduce sempre all' irreparabile solitudine umana, ossessione che Hopper si porterà fino alla morte, avvenuta nel 1967.

L'ultimo quadro esposto, Sun in an empty room (1963), è l'emblema di tutto questo: nel suo disorientante vuoto, svuotato di umanità e riempito solo dalla luce del sole, la rappresentazione del maestro ha raggiunto il suo estremo messaggio. La presenza ora convive con l'assenza.  




Esco da Gran Palais e continua a nevicare. Non mi sarei mai immaginato di andare negli States senza muovermi dalla Francia.
M.B.